Tra i comparti in cui si registra la necessità di adottare modelli di analisi e previsioni dei rischi ai sensi della Legge 231 del 2001 vi è senza dubbio quello agricolo, interessato di recente da numerose iniziative legislative, a partire da quelle finalizzate a scardinare il sistema dei ricorso alla manodopera clandestina e alla conseguente riemersione.
Il riferimento è alla legge n. 199/2016 (c.d. legge “anticaporalato”) che attua una rivoluzione copernicana in tema di reclutamento e sfruttamento di manodopera “in nero”.
La novella ruota attorno alla riscrittura dell’art. 603-bis rubricato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”.
Così, la nuova formulazione della disposizione punisce con la reclusione da 1 a 6 anni e con la multa da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore reclutato colui che:
1. recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2. utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro “stato di bisogno”.
Il profilo maggiormente caratterizzante la norma è dato dall’inclusione, nel novero dei soggetti attivi, del datore di lavoro. Infatti, nelle more della vigenza della disciplina precedente era prevista l’esclusiva punibilità dell’intermediario (c.d. “caporale”) e non anche di colui che avesse effettivamente beneficiato dell’attività di mediazione (rectius: il datore di lavoro).
Alla base di tale mutamento normativo milita il diffuso convincimento secondo cui il caporale non è l’unico soggetto che interviene nel rapporto di lavoro ma è una mera longa manus del datore di lavoro. In sostanza, caporale e datore di lavoro costituiscono le due facce della stessa medaglia: il caporalato.
Questo incontrovertibile assunto non deve, tuttavia, indurre a ritenere che le posizioni dei due soggetti siano parificate in ogni singolo aspetto. Infatti, relativamente all’elemento soggettivo si riscontrano delle divergenze.
La condotta del caporale si estrinseca nel reclutare manodopera con lo scopo precipuo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento (dolo specifico). Viceversa, è sufficiente che il datore di lavoro abbia consapevolezza e volontà di utilizzare, assumere o impiegare la manodopera oggetto della precedente attività di reclutamento (dolo generico).
Accanto all’estensione del novero dei soggetti attivi, la legge n. 199/2016 si segnala per un’ulteriore novità.
Il primo comma della disposizione discorre di “condizioni di sfruttamento” e “approfittando del loro stato di bisogno”. Sul punto sono necessarie talune precisazioni.
Anzitutto il concetto di “stato di bisogno”, che già di per sé sottende una particolare condizione di vulnerabilità della vittima, vanta ascendenze internazionali. Infatti, in sede convenzionale, tale nozione designa una situazione di fragilità del soggetto passivo che è costretto a rendere la prestazione lavorativa.
Pertanto, l’ulteriore riferimento al concetto di “approfittamento” non aggiunge nulla al peculiare disvalore penale del fatto che resta pregno di connotazioni negative anche qualora lo “stato di bisogno” venisse impiegato singolarmente.
Relativamente alle “condizioni di sfruttamento” si evidenzia come il legislatore abbia rinunciato alla descrizione del fatto tipico optando per l’introduzione dei cc.dd. indicatori dello sfruttamento. La scelta non è priva di significato. Infatti, nonostante tale tecnica descrittiva fosse già stata impiegata dal legislatore previgente, la nuova nozione di sfruttamento viene ora dilata sino al punto da ricomprendere qualsiasi attività dalla quale scaturisca un vantaggio economico per l’utilizzatore.
Il terzo comma della norma si articola in quattro indici di sfruttamento: a) la reiterata corresponsione di retribuzione in modo palesemente difforme dai CCNL o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o comunque sproporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato; b) la reiterata violazione delle normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria e alle ferie; c) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro; d) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Quale ultima innovazione introdotta nel tessuto dell’articolo 603-bis si sottolinea l’espunzione della “violenza, minaccia o intimidazione” quali elementi costitutivi di fattispecie.
Oggi, invece, la violenza o minaccia degradano a circostanze aggravanti speciali.
Il secondo comma dell’articolo in esame prevede che qualora i fatti siano commessi con violenza o minaccia si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. La situazione si acuisce nel caso in cui: a) i lavoratori reclutati siano superiori a tre; b) uno o più soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; c) il fatto è stato commesso esponendo i lavoratori sfrittati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro. In tali ipotesi la pena è incrementata da un terzo alla metà (art. 603-bis co. 4).
La normativa in materia di contrasto allo sfruttamento lavorativo assume connotazioni maggiormente incisive grazie all’inclusione dell’articolo 603-bis nel novero dei reati dai quali scaturisce la responsabilità delle persone giuridiche ex. d.lgs. n. 231/2001.
Si è detto più volte che la legge anticaporalato introduce una tutela multilivello, finalizzata alla repressione ad ampio spettro dello sfruttamento di manodopera irregolare. In quest’ottica, la mera sanzionabilità della condotta posta in essere dalla persona fisica (datore di lavoro o intermediario) avrebbe rappresentato un minus rispetto agli ambiziosi obiettivi perseguiti dalla novella.
Dunque, le legge in esame modifica l’articolo 25-quinquies del d.lgs. de quo prevedendo che per i delitti di cui agli articoli 600, 601, 602 e 603-bis si applichi all’ente la sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote (cfr. lett. a).
Tale disposizione fa il paio con l’articolo 25-duodecies (già introdotto con d.lgs. n. 109/2012) rubricato “reato di impiego di cittadini di paesi terzi con soggiorno irregolare”.
L’ampliamento dei reati presupposto opera su un triplice piano.
Il primo comma della disposizione prevede che in relazione al delitto di cui all’articolo 22 comma 12-bis del d.lgs. n. 286/1998 si applica all’ente la sanzione pecuniaria da 100 a 200 quote, entro il limite di 150.000 euro.
Per meglio comprendere la portata semantica della disposizione è necessario fornire un quadro esaustivo delle fattispecie delittuose richiamate.
L’articolo 22 co. 12 del T.U.I. punisce il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno o il cui permesso sia scaduto o non rinnovato, con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e con l’esosa multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato.
Il successivo articolo 22 co. 12-bis introduce una circostanza aggravante, prevedendo un incremento della pena da un terzo alla metà:
1) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre;
2) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa;
3) se i lavoratori occupati sono sottoposti a condizioni lavorative di particolare sfruttamento ex. art. 603 bis c.p.
Da tali ultime ipotesi, quindi, scaturisce la responsabilità delle persone giuridiche.
Tuttavia, è bene precisare che quest’ultima viene in rilievo solo qualora siano integrati i criteri soggettivi e oggettivi di imputazione della responsabilità dell’ente.
Relativamente al primo aspetto, l’articolo 5 del d.lgs. 231/2001 stabilisce che i reati presupposto devono esser stati commessi dalle persone in posizione di vertice o da quelle sottoposte alla vigilanza o direzione delle prime.
Sebbene la norma in esame sembri delineare un reato proprio di soggetti apicali dell’ente, la giurisprudenza ha esteso il novero dei soggetti attivi includendovi colui che procede all’assunzione diretta dello straniero oltre a colui che impiega materialmente i lavoratori (Cass. Pen. Sez. I, n. 25615 del 18/05/2011).
Circa i criteri oggettivi di imputazione occorre che il reato sia commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente. Si tratta di due concetti giuridicamente differenti e non sovrapponibili. Infatti, in un’importante sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione è stato posto un netto discrimen tra i due termini: mentre la nozione di “interesse” attiene ad una valutazione ex ante la commissione del reato presupposto, la locuzione “vantaggio” implicherebbe un controllo ex post, ossia l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (Cass. Pen. Sez. IV, n. 2544 del 21/01/2016).
L’interesse esprime pertanto il comportamento finalisticamente orientato ad uno specifico obiettivo, laddove il vantaggio assurge a beneficio oggettivamente derivante dalla commissione del reato, di qualunque natura esso sia.
Con la L. n. 161/2017 (“Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al D. Lgs. 159/2011, al Codice Penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p. e altre disposizioni”) la responsabilità amministrativa dell’ente è stata estesa a due ulteriori fattispecie di reato:
Procurato ingresso illecito di stranieri e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina;
Favoreggiamento della permanenza illecita di stranieri nel territorio dello Stato.
La prima ipotesi (prevista dall’art. 12 co. 3 del T.U.I.) punisce chi promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compia altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente.
La responsabilità dell’ente sorgerà qualora si verifichi uno dei seguenti presupposti:
a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone;
b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi
internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti;
e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti.
In tali ipotesi, accanto alla pena della reclusione da 5 a 15 anni e alla multa di 15.000 euro per ogni persona si applicherà altresì la sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote qualora il fatto sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell”ente.
La terza e ultima ipotesi (disciplinata dall’art. 12 co. 5 del T.U.I.) prevede che sia punito con la pena della reclusione fino a 4 anni e con la multa fino a 15.493 euro chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività previste dall’art. 12 T.U.I., favorisce la permanenza di clandestini nel territorio dello Stato.
Circa la responsabilità amministrativa dell’ente è stabilita la sanzione pecuniaria da 100 a 200 quote.
Infine, per ambo le ipotesi si prevede che l’ente ritenuto responsanbile di colpa di organizzazione soggiacerà alle sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 co. 2 del d. lgs. in commento per un periodo non inferiore ad un anno.
L’esclusione di tale sanzione all’ipotesi prevista dall’articolo 22 co. 12 (rectius: impiego di manodopera illegale) appare, in realtà, priva di qualsivoglia profilo di ragionevolezza, posto che tale fattispecie delittuosa costituisce una species di favoreggiamento della permanenza illegale (ex. art. 12 co. 5) per la quale è invece prevista la sanzione interdittiva.
Una più ampia considerazione delle modifiche introdotte induce a rilevare un ulteriore profilo problematico.
Le ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina si inseriscono nell’alveo di un tessuto criminale avente carattere transnazionale. Per tale motivo, oltre all’assenza di un fil rouge tra i criteri di imputazione previsti dagli artt. 5 e ss. e la commissione di attività che si presentano come illecite ab origine, si registra una discutibile limitazione dell’azione repressiva.
Relativamente all’aspetto preventivo, inoltre, il riferimento ai modelli organizzativi appare del tutto ridondante.
Com’è noto, l’articolo 6 del d.lgs. prevede che l’efficace adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo possa limitare o, in taluni casi, escludere, la responsabilità dell’ente. Si tratta di un importantissimo strumento preventivo finalizzato all’individuazione e alla tempestiva eliminazione di eventuali situazioni di rischio.
Affinché il suddetto Modello possa esplicare la sua funzione è però necessario che siano rispettate alcune fasi:
individuazione delle aree a rischio reato (c.d. risk assestment);
valutazione del sistema di controllo interno;
analisi comparativa e piani di miglioramento;
redazione del modello vero e proprio;
formazione e diffusione.
Nell’ambito delle attività così scandite un ruolo di prim’ordine è assurto dal. c.d. Organismo di Vigilanza (ODV). Si tratta un soggetto (monocratico o collegiale) preposto al controllo circa l’osservanza e l’attuazione del Modello da parte dei destinatari nonché a proporre eventuali rettifiche e aggiornamenti dello stesso.
L’importanza di tale figura deriva non solo dall’ampio ventaglio dei compiti ad esso attribuiti ma anche dal fatto che, per beneficiare dell’esimente prevista l’ente dovrà non solo provare (come già accennato) di aver adottato il modello, ma anche l’assenza di omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo.
In particolare, risulterà essenziale per una società l’adozione di un modello (ovvero il suo aggiornamento) che prenda in considerazione la fattispecie dell’articolo 603-bis c.p. a seguito di una specifica attività di identificazione dei rischi che tenga conto non solo del trattamento del personale interno, ma anche dei lavori e servizi appaltati a terzi, specialmente laddove il fattore “prezzo” (che poi si traduce nell’interesse e nel vantaggio dell’impresa committente rispetto al reato, in termini di “risparmio di spesa”) possa concretamente influire sulle condizioni del personale impiegato nell’attività. In questo contesto, il processo principalmente interessato da questa esigenza di adeguamento sarà quello di gestione delle risorse umane e, in particolare, di selezione e assunzione del personale, con riferimento specifico alla definizione del rapporto di lavoro, alla gestione degli aspetti retributivi e all’organizzazione dei turni di lavoro, dei riposi settimanali e delle ferie.
Una maggiore attenzione dovrà poi esser prestata in tutte quelle realtà produttive caratterizzate dal ricorso allo strumento di somministrazione di lavoro, attraverso il quale il reclutamento di personale avviene per tramite di un soggetto terzo intermediario. E’ il caso, ad esempio, del settore agricolo.
Per tale motivo Confagricoltura è intervenuta dettando delle linee guida per la redazione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo nel settore agricolo.
Segnatamente, nell’adozione del modello l’ente dovrà prevedere delle procedure atte a garantire che:
i lavoratori assunti a tempo determinato o indeterminato forniscano copia del codice fiscale, carta d’identità, permesso di soggiorno, passaporto ecc..;
qualora l’ente si avvalga della somministrazione di manodopera, richieda copia della documentazione relativa alla regolarità dei lavoratori impiegati;
qualora le società si avvalgano di ditte appaltatrici, richieda all’appaltatrice la documentazione finalizzata a comprovare la regolarità del lavoratore ivi operante.
In relazione a quest’ultimo aspetto giova sottolineare che all’imprenditore potrebbe ascriversi una sorta di “responsabilità per fatto altrui” qualora egli non si avveda di controllare che i fornitori rispettino la normativa prevista dai CCNL nonché in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Recenti invece le preoccupazioni legate al rispetto delle misure finalizzate a fronteggiare l’emergenza sanitaria Covid-19.
In tal caso, alla difficoltà di reperimento dei dispositivi di protezione individuale (si pensi che la Cia-Agricoltori Italiani ha richiesto “una mascherina al giorno per 1.300.000 agricoltori”) si somma la necessità di garantire il distanziamento sociale (operazione agevole in campo aperto ma più ardua in altri settori della filiera agroalimentare).
Tutto ciò considerato è evidente che il mancato utilizzo dei DPI genererà due aberranti conseguenze: da un lato, l’impossibilità di garantire la fornitura di materie prime indispensabili ad evitare la stasi dell’intera filiera; dall’altro la riconducibilità della condotta omissiva all’interno degli indici di sfruttamento previsti dall’articolo 603-bis.
Ben si comprende pertanto come la posizione dell’imprenditore potrebbe subire un notevole nocumento, soprattutto ove si consideri che a seguito della contestazione del reato ex. art. 603-bis verrà disposta la confisca obbligatoria. Si tratta di un’innovazione introdotta dall’articolo 603-bis 2 e finalizzata ad evitare indebite accumulazione di risorse patrimoniali “criminali”.
La confisca non è però l’unica misura di carattere patrimoniale introdotta dal legislatore di riforma.
Infatti, l’articolo 3 della novella prevede che qualora ricorrano i presupposti per il sequestro preventivo ex. art. 321 c.p.p. il giudice dovrà disporre il controllo giudiziario dell’azienda nel caso in cui il provvedimento cautelare (rectius: sequestro) possa arrecare nocumento ai livelli occupazionali e al valore economico dell’azienda.
In tal caso il giudice nominerà un amministratore giudiziario che, assieme all’imprenditore, si occuperà dell’attività aziendale e avrò l’obbligo di riferire al giudice sull’andamento dell’amministrazione con cadenza trimestrale. Egli dovrà, inoltre, comunicare senza ritardo eventuali situazioni di irregolarità riscontrate.
E’ evidente che la finalità perseguita sia quella di tutelare il valore commerciale dell’impresa all’interno della quale i lavoratori si trovano ad operare evitando, tra l’altro, un’eccesiva ingerenza nell’attività realizzata dall’imprenditore (che viene meramente affiancato dall’amministratore giudiziario).
La trattazione non sarebbe completa se non si dedicassero dei brevi cenni al recente Disegno di legge AC 2427 (presentato alla Camera il 6 marzo 2020) rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”.
Il provvedimento nasce dalla constatazione dell’inefficace repressione penale dei reati agroalimentari. In particolare, a presidio della salute pubblica (bene primario per antonomasia) sono poste delle sanzioni oggettivamente troppo basse che conducono ad una rapida prescrizione dei reati.
Per ovviare a tale problematica il DDL apporta, tra le altre cose, una modifica al d.lgs n. 231/2001 tramite l’integrazione del catalogo dei reati presupposti e la previsione di uno specifico modello organizzativo di gestione e controllo.
Segnatamente, l’articolo 5 inserisce all’interno del d.lgs. in esame un articolo 6-bis relativo ai modelli di organizzazione dell’ente qualificato come impresa alimentare o che svolga una tra le attività connesse alle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti.
Il primo comma amplia il novero dei reati presupposto includendovi i reati agroalimentari previsti dal DDL.
In particolare, si prevede la scissione dell’articolo 25-bis 1 in tre diverse disposizioni:
delitti contro l’industria e il commercio (art. 25-bis 1);
le frodi in commercio di prodotti alimentari (art. 25-bis 2);
i delitti contro la salute pubblica (art. 25-bis 3).
In relazione ai delitti contro l’industria e il commercio si prevede la soppressione dei reati di cui agli artt. 516 e 517 quater c.p. Infatti, quest’ultimo, unitamente all’articolo 517-sexies (che sostituisce l’articolo 516 c.p.) è ora trasmigrato nell’articolo 25 bis 2.
Espunti sono altresì i reati previsti dagli artt. 517 (relativo alla vendita dei prodotti industriali tramite segni mendaci) e 517-ter (concernente la fabbricazione e il commercio di beni realizzati usurpando la proprietà intellettuale) in relazioni ai quali non è prevista la responsabilità dell’ente.
Il nuovo articolo 25-bis 2 (frodi nel commercio di prodotti alimentari) ingloba una vasta gamma di reati:
frodi nel commercio di alimenti;
commercio di alimenti con segni mendaci;
contraffazione dei segni di indicazione geografica e di denominazione protetta dei prodotti agro-alimentari;
agropirateria.
In relazione a tali ipotesi si applicherà la sanzione amministrativa pari a: fino a 300 quote (per le prime due fattispecie); da 100 a 400 quote (per la terza fattispecie).
Per il delitto di agropirateria, considerata la maggior gravità della condotta delittuosa, si applicherà la sanzione amministrativa da 200 a 800 quote unitamente alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9 co. 2 del d.lgs.
Infine, l’articolo 25-bis 3 (delitti di comune pericolo contro la salute pubblica) annovera nel suo catalogo i delitti di:
avvelenamento di acque o di alimenti;
contaminazione, adulterazione o corruzione di acque, alimenti o medicinali;
importazione, esportazione, commercio, trasporto, vendita o distribuzione di alimenti, medicinali o acque pericolosi;
omesso ritiro di alimenti, medicinali o acque pericolosi;
informazioni commerciali ingannevoli o pericolosi;
delitti colposi contro la salute pubblica;
disastro sanitario.
Il DDL prevede che si applichi una sanzione amministrativa pecuniaria variabile: da 100 a 500 quote più interdizione da 1 a 2 anni (per la prima ipotesi); da 500 a 800 quote più interdizione da 1 a 2 anni (per la seconda ipotesi); da 300 a 600 quote più interdizione da 6 mesi a un anno (per la terza ipotesi); fino a 300 quote più interdizione fino a sei mesi (per la successive ipotesi); infine, per il disastro sanitario la pena oscillerà tra le 400 e le 800 quote unitamente all’interdizione da 1 a 2 anni.
Oltre alle pene così determinate, il legislatore ha inasprito il rigorismo sanzionatorio prevedendo (in relazioni ai reati di cui agli artt. 25-bis 2 e 25-bis 3) l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività di cui all’art. 16 del d.lgs. qualora l’ente o una sua unità organizzativa siano stabilmente o prevalentemente utilizzati per la commissione dei reati testé enucleati senza che l’ente abbia la possibilità di riparare le conseguenze del reato.
Come accennato, il secondo e ultimo profilo sul quale ha inciso il provvedimento in esame concerne l’implementazione del modello organizzativo.
A tal riguardo, il comma 2 del d.lgs. indica i requisiti che debbono presiedere all’articolazione del suddetto modello:
la previsione di un sistema di registrazione che dia conto dell’effettiva realizzazione delle attività previste dal modello;
un sistema che assicuri le competenze e i poteri necessari all’attività di valutazione, gestione e controllo del rischio nonché la previsione di un apparato disciplinare che reprimerà eventuali violazioni delle misure indicate nel modello;
attività di vigilanza e controllo sull’attuazione del modello.
Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza, posto che esso consente non solo di colmare eventuali deficit nel funzionamento del modello ma anche di porre rimedio alle violazioni delle norme in materia sicurezza alimentare e, ancor di più, alla lealtà commerciale nei confronti del consumatore.
Affinché il modello de quo possa esplicare efficacia esimente non è però sufficiente porre in essere le attività previste dall’articolo 6-bis co. 2.
Si richiede, infatti, che l’ente assicuri altresì il puntuale e solerte adempimento di una serie di obblighi giuridici (previsti sia a livello interno che a livello comunitario) concernenti le materie tassativamente indicate dal comma 1.
A titolo esemplificativo, possiamo menzionare: il rispetto della normativa relativa alla fornitura di informazioni sugli alimenti; l’adempimento degli obblighi di rintracciabilità del prodotto (inteso come cognizione delle varie fasi di produzione, trasformazione, ecc…); il controllo sulla qualità, sicurezza e integrità del prodotto.
Conclusivamente, è possibile plaudere all’iniziativa del legislatore che, ponendosi nel solco tracciato dalla legge anticaporalato, è intervenuto anche sull’apparato produttivo e distributivo di quel comparto sovente oggetto di infiltrazioni mafiose e dei fenomeni connessi all’illegalità.
In quest’ottica, il consumatore diviene il fulcro di una normativa orientata alla salvaguardia del florido patrimonio del primo settore e al riconoscimento del diritto alla trasparenza e alla salute.